Da Artribune.com – 15 aprile 2020
Quarto appuntamento con il forum aperto di dibattito organizzato da Coopculture e Artribune. Pietro Petraroia, direttore della rivista “Il Capitale culturale”, analizza la necessità di considerare la cultura una risorsa dalle ricadute economiche importanti, al pari della produzione industriale. E dunque invita a mettere in campo strategie concrete affinché l’attività culturale possa dare il suo contributo alla ripartenza post covid-19.
In questo momento di lutto e confusione per la pandemia, ma anche di grande voglia di cercare nuove modalità di vita associata e produttiva, si affastellano sui tavoli dei decisori istituzionali (o di chi fa loro da “filtro”) appelli e anche proposte per implorare il sussidio pubblico alla cultura nelle sue forme più diverse. Le forme di fruizione culturale che sono incompatibili con il distanziamento (teatro, cinema, visite e viaggi di gruppo, mostre blockbuster, luoghi della cultura molto frequentati, etc.) sembrano le più penalizzate, purtroppo anche in prospettiva.
Di qui a uno-tre mesi, se non si pongono condizioni innovative di sistema per la produzione culturale e dei servizi turistici ‒ consapevoli tutti che comunque non vi sarà soccorso assistenziale a oltranza ‒ quei milioni di persone che stanno restando senza retribuzione potrebbero venire espulsi definitivamente dal mercato del lavoro e passare in breve nelle categorie di povertà relativa o anche assoluta; a seguire (in questo come in altri ambiti produttivi), in assenza di innovazione un numero notevole di persone transiterà inoltre verso la povertà estrema soprattutto nei contesti più urbanizzati.
Ma a trovare orecchie più attente nella politica, per ora, sembrano essere soltanto le pressioni per la sollecita riapertura delle industrie manifatturiere, che hanno una più forte capacità contrattuale e coesione di rappresentanza di ruolo e interessi: sembra che il 45% del Pil italiano lo facciano loro, nelle regioni del Nord, soprattutto dove si è indugiato a chiudere le attività e il COVID-19 è esploso più dolorosamente. Sembra di sentire: “Noi produciamo beni e lavoro essenziali, gli altri costano e fanno spendere per cose superflue”. I più garbati si chiedono: “Ma perché assistere le produzioni e i servizi culturali, anziché ‒ poniamo ‒ gli artigiani e i ristoratori?”.
LE RISPOSTE NELLA COSTITUZIONE
Domande comprensibili, certo; ma non ignoriamo che la risposta c’è ed è proprio nella nostra Costituzione, precisamente in quei “principi fondamentali” che precedono tutti gli altri articoli. Non mi riferisco qui solo all’articolo 9, vessillo di noi “benculturalisti”, ma anche al precedente articolo 4 ‒ troppo dimenticato ‒ che individua per noi tutti cittadini dapprima un diritto primario, il lavoro, e subito dopo un dovere irrinunciabile: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Chi si chiede perché proprio la cultura debba avere una priorità forte nel rilancio a fine pandemia dovrebbe rileggere quelle parole della nostra Carta fondamentale e rendersi conto che le nostre libertà, di comunità civile e di singoli, risiede nella possibilità di concorrere al bene comune. Lì dentro c’è sia il teatro sia la cultura d’impresa, c’è la radice vera dei “bilanci sociali” delle aziende e non solo il non profit, c’è l’innovazione di processo e non solo di prodotto, c’è la radice della competitività buona, quella che fa crescere il sistema e mitiga le disuguaglianze sociali ed economiche: lo sapeva e testimoniava con i fatti Adriano Olivetti. L’interazione fra cultura e manifatturiero fu protagonista nelle strategie di Fiat e Pirelli, quando la finanziarizzazione dell’impresa non la faceva da padrona e Rinascente era scuola di design della comunicazione.
Se chi oggi ci governa pensasse di poter fare scelte economiche giuste ignorando l’ordine di priorità costituzionale, si renderebbe responsabile di un attentato sia alla libertà che allo sviluppo del nostro Paese e della società che lo anima, in tutte le sue espressioni e potenzialità di ripresa post COVID-19.
Certo, occorrerebbe, dopo la devastante fase attuale, immaginare e promuovere modelli diversi di organizzazione imprenditoriale della cultura, che siano da subito più efficienti e sostenibili rispetto ai modelli finora correnti. Forse le grandi imprese culturali (inclusa l’editoria tradizionale, probabilmente) che concentrano in poche sedi personale e mezzi tecnici di produzione, potrebbero trovare conveniente riarticolarsi in reti collaborative, diventando quasi dei centri di coordinamento di start-up innovative.
Ma questo richiederebbe di regolare fin da subito le “imprese culturali e creative” (sia per le nuove produzioni culturali sia per i servizi di fruizione del patrimonio culturale) in modo ben diverso da come lascia presagire la legge 205/2017 (art. 1, comma 57). Essa, da una parte, riconosce i nuovi soggetti imprenditoriali nella loro specificità, dall’altra riduce le agevolazioni al mero riconoscimento, in termini di crediti d’imposta, del “30 per cento dei costi sostenuti per le attività di sviluppo, produzione e promozione dei prodotti e servizi culturali e creativi…”. Ma come si può pensare di rendere compresenti nel sistema-Paese un’enorme evasione fiscale e l’assenza di vero sostegno alle start-up innovative, cui si chiede invece di pagare appena nate balzelli vari, gravandole di adempimenti amministrativi che distraggono gravemente le loro forze dall’obiettivo innovativo? Oppure si pensa che le imprese culturali e creative siano generatrici di meri costi? O che possano ancora vivacchiare senza legarsi alla ricerca? Come dimenticare che i nostri attuali asset turistici e culturali (sinergicamente considerati, pur nelle loro profonde differenze, e governati peraltro con gravissime inefficienze) generano una quota percentuale di Pil a doppia cifra, stimabile in quasi la metà del Pil delle imprese manifatturiere del Nord Italia?
NUOVI ASSETTI ECONOMICI
Occorre stimolare processi riorganizzativi, d’investimento, fiscali e regolamentari che accompagnino (e non che strangolino sul nascere) la ritessitura dei processi produttivi culturali e creativi, ovunque e comunque ciò sia possibile nel breve-medio periodo. Il modello cooperativistico e alcune buone pratiche del Terzo Settore possono probabilmente ispirare nuovi regimi di funzionamento produttivo anche per altre categorie di imprese. Gli operatori del credito possono venire sollecitati a implementare linee di prodotto che favoriscano simili processi, innovando il rapporto tradizionalmente tenuto con le PMI. I soggetti finanziatori pubblici e le fondazioni di origine bancaria ‒ come nella più solida cultura aziendale – potrebbero introdurre pratiche di monitoraggio dei processi e di valutazione ex-ante ed ex-post, che siano fondate sulla verifica dei risultati progettati e non soltanto di quanto si è speso, con riferimento al ciclo pluriennale e non soltanto al fatturato nel breve termine.
Non si dimentichi, comunque, di creare occasioni di apprendimento condiviso e servizi di counseling, per evitare che i promotori e gli attori di nuovi processi produttivi debbano concentrarsi sulla burocrazia, invece che rafforzare potentemente in fase di start-up le proprie competenze produttive, come quelle legate alle nuove frontiere del digitale (che stanno ridisegnando il rapporto analogico-virtuale) e all’utilizzo di pratiche collaborative; e poi occorre sfondare i muri che proteggono le miniere di metadati che quasi tutte le nostre attività quotidiane producono, ma della cui conoscenza siamo inconsapevolmente espropriati, mentre potrebbero orientare in tempo reale l’ottimizzazione dei servizi di interesse pubblico.
Tutto questo non è fatuo impiego del “tempo libero”, come recitavano una volta le denominazioni di tanti assessorati di enti locali. Tutto questo è fare cultura. Tutto questo è anche divenire comunità più libera e produttiva, orientata a una maggiore corresponsabilità, sapendo cogliere l’opportunità di rendere sinergiche le diversità. Tutto questo è creazione, produzione, sviluppo. Che ruolo ha questo nella normativa d’urgenza generata dalla pandemia?
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