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L’attacco al Patrimonio dell’Umanità: ritorno ai primordi – di Paolo Pastorello

Roma 15 aprile 2015

Dall’antropologia culturale abbiamo ereditato la grande lezione del relativismo culturale. Da Franz Boas a Margaret Mead, abbiamo imparato che usi, costumi e gran parte dei valori che l’uomo si è dato come principi di convivenza sociale sono propri di ogni cultura e validi soltanto in determinati contesti geografici e temporali.

Qualunque elaborazione culturale risponde a esigenze storiche locali. Valori per noi fondamentali, come, per esempio, il concetto di democrazia o il rispetto della vita umana, che noi oggi consideriamo inalienabile, sono conquiste relativamente recenti e non condivise da tutte le culture.

Lo strutturalismo antropologico ha però mostrato che esistono elaborazioni culturali sovraindividuali che travalicano i confini spazio-temporali e hanno carattere universale, in quanto espressione della mente umana. All’elaborazione dei grandi miti, per esempio, come mostrato da Claude Lévi-Strauss, hanno contribuito molte civiltà nel corso della storia dell’umanità, partecipi delle strutture profonde della mente, delle aspirazioni e dei desideri inconsci dell’uomo sociale. In questo, siamo tutti fratelli e comunque, come dimostrano le più evolute ricerche genetiche, consanguinei, discendenti da ceppi primordiali di poche centinaia di individui. Ma andando ancora più indietro, la nostra parentela, in quanto primati, non si è allontanata molto dalle scimmie, delle quali mostriamo, migliorate, le stesse caratteristiche di intelligenza, progettualità e aggressività.

Anche i beni materiali sono frutto, in qualche modo, di questa cultura immateriale, sovraindividuale e universale, e pertanto bene comune, Patrimonio dell’Umanità. La Cultura si manifesta essenzialmente come affrancamento dalla Natura, che l’uomo cerca di realizzare con l’intelligenza, la fantasia e la progettualità. Ma la paura dei fenomeni naturali, come ci insegnano la filosofia e la psicoanalisi, ha generato non soltanto il pensiero scientifico, ma anche il pensiero magico, contemporaneamente a quello religioso: ogni popolo con le proprie credenze e i propri riti.

Quanto più ci si allontana dalla natura, tanto più essa incute timore e, in fin dei conti, quello che noi, oggi, in Occidente, chiamiamo progresso (concetto relativamente recente, frutto del positivismo ottocentesco), non è altro che il continuo tentativo di controllare le forze naturali, cosa che tecnicamente ci riesce piuttosto bene ma che, dal punto di vista ecologico e geopolitico ha dato esiti prevalentemente malriusciti, creando dissesti strutturali, sociali e politici.

Il timore di ciò che è altro da noi, in ossequio al relativismo culturale, (concetto, che consente a noi di comprendere meglio gli altri, ma che non funziona, di per sé, in senso inverso), consiglia prudenza e rispetto reciproco, ma il risultato è spesso il contrario e subentra il panico che genera il desiderio di distruggere tutto ciò che ci può nuocere.

La distruzione dei siti archeologici di Nimrud e di Hatra e delle statue dei musei di Mosul e Ninive, frutto dell’aggressività incontrollata e della paura di simboli estranei alla propria civiltà, costituisce la negazione dell’essenza stessa della Cultura, una regressione ai primordi della civiltà, il ritorno alla bruta Natura.

La cosa più grave è che a Nimrud e Hatra si è celebrata la mortificazione dell’essenza stessa dell’Uomo, della sua storia e del suo progresso intellettuale. Nell’apoteosi della propria aggressività bestiale, l’uomo, negando la propria cultura universale, nega se stesso.

La storia è piena di riti celebrati in nome di falsi ideali, nel vano tentativo di esorcizzare la paura. I roghi di libri e manoscritti, perpetrati dai nazisti di Hitler o per mano dell’Inquisizione, non sono diversi dalle ruspe di Nimrud: entrambi sono l’espressione di una barbarie sconsiderata e delirante, di un irrazionale atteggiamento magico ed esorcistico.

Paradossalmente, quello che è successo in Iraq è l’attacco autolesionistico di uomini contro monumenti che sanciscono il loro affrancamento dal mondo naturale e l’aspirazione all’eternità come specie culturale. Considerato in questa prospettiva, l’attacco al Patrimonio dell’Umanità è in qualche modo ancora più grave delle ritorsioni, caratteristiche di ogni guerra, contro individui civili e militari, tanto mostruose e insensate quanto inaccettabili e per noi incomprensibili. La distruzione dei simboli della storia è la negazione delle manifestazioni tangibili della grandezza e dell’essenza stessa dell’essere umano, un’azione nichilista senza altro senso se non un rigurgito di bestialità primordiale.

Considerare i siti archeologici assiro-babilonesi di Nimrud e Hatra (città multietniche di fusione di culture e pantheon sumeri, assiri, siriani, greci e arabi) come centri di idolatria e pericolosi santuari oggetto di culti contrari all’Islam è un chiaro indizio dell’affanno ideologico dell’ISIS, della mancanza di un’organica e coerente direttiva culturale e religiosa e del disordine nel sistema che il califfato sta cercando di diffondere, di un delirio di onnipotenza del potere da cui traspaiono chiari i segni dell’anarchia e del panico in cui versano gli attori di questa guerra contro tutti, contro i simboli ideali e i segni materiali, non di altre religioni, ma dell’uomo in quanto essere evoluto ed emancipato, padrone della propria storia e artefice della propria cultura.

L’ISIS sta cercando di distruggere l’eterno dell’Uomo inseguendo il vano sogno dell’eternità del singolo.

Paolo Pastorello 

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