Restauratori Senza Frontiere

NEGLI OCCHI DELLA SIBILLA – di Antonio Forcellino

Da “Il Manifeso”, 18 novembre 2015

Cappella Sistina. Nel libro «Io e Michelangelo», il restauratore Gianluigi Colalucci racconta la straordinaria relazione che nacque in quattordici anni di «vicinanza fisica» con il capolavoro del Buonarroti. Una passione che venne avversata e fu oggetto di roventi polemiche

È arrivato in libreria un volume che molti aspettavano, Io e Michelangelo, di Gianluigi Colalucci (Edizioni Musei Vaticani-24Ore Cultura, pp. 255, euro 19), nel quale l’uomo che per quattordici anni ha lavorato al restauro degli affreschi della Cappella Sistina, ha deciso di confessare «quello che non si può e non si scrive nei saggi scientifici, sentimenti, esaltazioni, angosce, riflessioni vissute per anni e anni sotto la volta, a tu per tu con quegli eterni giganti». Proprio grazie a questa disposizione d’animo che, in altre pagine, Colalucci attribuisce ironicamente all’età e alla perdita dei freni inibitori, ma che meglio sarebbe attribuire all’estrema libertà raggiunta con il tempo, l’autore rende finalmente comprensibili a tutti, cosa è veramente un restauro.

Furie americane
Il libro racconta una vicenda che è innanzitutto una vicenda umana e, come tale, godibile da ogni tipo di lettore. Lo fa con una scrittura asciutta, a tratti ironica, con i tempi narrativi che creano suspence in molti punti e suscitano fortissime emozioni in altri.Colalucci narra con i toni della sceneggiatura di un film neorealista la Roma dei suoi esordi e la notizia del suo ingaggio in Vaticano, con la bella immagine della moglie ad aspettarlo in camice bianco (anche lei restauratrice) sulla soglia dell’Istituto Centrale del Restauro, un ingaggio che metteva fine al suo esilio palermitano (pure ricordato con tenerezza in altri momenti) e restituisce in tutta la sua drammaticità la polemica che per quindici anni lo ha preso di mira con attacchi insensati e violenti, alimentati più dalla smania di apparire nei media di molti detrattori, che da motivate problematiche conservative.

Il racconto assume toni teatrali quando l’autore ricorda il brutale attacco subito a New York, in un elegante Club della Fifth Avenue, orchestrato da «un uomo sulla sessantina, ma ne dimostrava di più. Alto , corporatura imponente e pesante, aveva una voce calda e scura e capelli tinti, portava occhiali che in parte confondevano le due borse sotto gli occhi», e da un suo amico documentarista che sosteneva come gli affreschi non avessero bisogno di pulitura perché al di sopra di uno strato di fumo fermo a mezz’aria nella Cappella Sistina (gli anelli di Mercurio?) i dipinti apparivano in perfetto stato, e lui lo poteva testimoniare.

È su queste basi tanto «scientifiche» che la potenza e l’arroganza dei media americani riuscirono a montare una polemica su cui si inserirono in Italia gli interessi di ambienti che erano diversamente coinvolti e tentavano di ostacolare quel restauro: interessi tutti con chiarezza individuati e raccontati nel libro. Questo aspetto umano e sentimentale della vicenda offre materia emozionante al lettore, ma la vera sorpresa di questo volume è la capacità di affrontare temi ben più seri con la leggerezza dell’ affabulazione bonaria. Uno degli argomenti più interessanti riguarda la consapevolezza di non poter semplificare una procedura, qual è quella del restauro, che viene qui finalmente rivendicato apertamente come opera critica creativa e individuale: «La tecnologia e le indagini scientifiche molto avanzate dei giorni nostri permettono di ridurre al minimo i margini d’errore, ma sostanzialmente, che piaccia o no, il risultato di una pulitura sta nelle mani di chi opera (…). Da qui i lunghi momenti di riflessione in attesa dell’arrivo di quella corrente magnetica che deve legare l’opera alla mente del restauratore, in una fase che io considero il momento ’creativo’ del restauro».

Solo considerando questo impegno creativo e intellettuale del restauratore ci si potrà spiegare in che modo Colalucci abbia potuto portare a termine, insieme ad altre figure professionali, ai quali generosamente riconosce grandi meriti, un’impresa così difficile per l’estensione dei dipinti e la complessità del loro stato di conservazione e, oltretutto, in una condizione psicologica di prostrazione originata dalle continue aggressioni mediatiche. Ma che l’impegno sia stato soprattutto intellettuale lo dimostrano i passi bellissimi attraverso i quali Colalucci ci guida nella pittura di Michelangelo. Lo fa con modestia, rivelando senza paura di sembrare ingenuo — «quando facevo questa manovra sembravo un pazzo tranquillo» — i suoi tentativi di ripercorrere l’iter esecutivo di Michelangelo, riproducendone le pennellate una per una, intingendo l’inesistente colore in un’immaginaria ciotola di pigmento, per capire come e in quanto tempo l’artista aveva dipinto le figure delle lunette.

Da questa relazione sensuale e fisica con l’opera d’arte che finalmente viene rivelata in tutta la sua felicità, nasce quella comprensione così approfondita del dipinto che è condizione necessaria al suo buon restauro. Ma sono anche altri i problemi affrontati da Colalucci: sono i dogmi accademici contro i quali si è dovuto battere per portare a termine — e bene — il suo lavoro. Il più ottuso era quello che sosteneva una radicale diversità tra il Michelangelo pittore del Tondo Doni e il Michelangelo pittore della Volta Sistina, «la sua pittura su tavola, cromaticamente molto simile agli affreschi puliti, come il Tondo Doni, non era considerata valida dagli storici dell’arte per stabilire un nesso con la Sistina per via della diversità delle due tecniche pittoriche». Come se un artista cambiasse forme e colori, e in definitiva trasformasse il proprio «stile» a seconda del supporto su cui dipingeva.

Un’operazione meccanica?
Ma se queste «rigidità» possono apparire innocue divagazioni retoriche in un’aula universitaria, diventano pregiudizi pieni di conseguenze pratiche quando bisogna portare a termine un restauro di cui si sente tutto il peso e la responsabilità. Il contributo che questo libro porta alla Storia dell’arte italiana forse non è inferiore a quello dato da Gianluigi Colalucci con il restauro degli affreschi sistini perché — in modo straordinariamente efficace — si spiega non solo cosa sia un restauro, ma si rivela quanto acume critico e quanta intelligenza ci siano dietro un processo che per molti rimane banalmente un processo manuale e meccanico. Scorrendo le sue pagine, si capisce — meglio che in qualsiasi manuale accademico — che è solo grazie a questo acume e alle conoscenze accumulate con un training formativo d’eccellenza, quale è stato quello nell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, che si è potuto raggiungere un risultato così rilevante.

Colalucci dopo averci regalato un Michelangelo che per la prima volta dopo secoli somiglia a Michelangelo (con buona pace dei pittori romantici d’America e d’Italia) ci regala con questo suo libro una testimonianza straordinaria su cosa sia il restauro delle opere d’arte, chiarendone la complessità, la natura, i lati oscuri e quella felicità del contatto amoroso con l’opera stessa che lo lascia, suo malgrado, dolorante quando la relazione con Michelangelo si interrompe e lui non è preparato all’abbandono. «Era come perdere all’improvviso una persona cara, un amico. Solo in quei momenti ti rendi conto di tutto quello che è finito con la sua morte e di quanto la sua presenza contasse per te». Sono parole semplici, che faranno sorridere gli spiriti sofisticati, ma che si voglia o no è questo il rapporto del restauratore con l’opera d’arte e, finalmente, qualcuno a cui dobbiamo molta riconoscenza lo ha detto per tutti.
L’augurio è che su questo libro riflettano soprattutto le istituzioni italiane che sembrano impegnate in ogni loro articolazione, soprintendenze, università, centri di Ricerca a fare del restauro una procedura meccanica da affidare alle ditte e non agli uomini. In questo panorama desolante è d’obbligo sottolineare la diversità dell’Istituzione Vaticana, e di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani che ha voluto fortemente questo libro come scrive nella sua presentazione, e che da anni ormai testimonia quasi in solitudine la rara consapevolezza di cosa sia veramente il restauro.

La querelle alle spalle
Infine, qualcosa va detto per i più giovani lettori che stenteranno a capire la violenza delle polemiche scatenate negli anni ottanta e novanta, a livello mondiale, sul delicato lavoro che riguardava la Cappella Sistina. Fu una guerra feroce nella quale fummo ingaggiati tutti in un modo o nell’altro. Anche a me, che avevo relazioni epistolari con James Beck, venne richiesto di firmare appelli e manifesti contro questo restauro e quando rifiutai di essere assoldato nella campagna diffamatoria vidi svanire immediatamente la relazione con il professore della Columbia University. Ma quella veemenza oggi è passata per fortuna e Colalucci può godersi i risultati meravigliosi del suo lavoro. Sentiamo dunque di dovergli le stesse parole che gli rivolse in fretta su un aereo un’anonima signora che, come spesso capita, grazie alla sua sincera passione per l’arte, aveva capito di quella vicenda molto più di molti addetti ai lavori «Grazie per quel che ha fatto per noi».

Antonio Forcellino

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