Beni archeologici: lo scontro fra esperti sull’intervento al Tempio della Pace. «Persa l’unicità». Il dilemma: il campanile di San Marco fu ricostruito, è giusto farlo o no?
Di Gian Antonio Stella – Il Corriere della Sera, 17 agosto 2015
ROMA — Cosa vuol dire anastilosi? «Che ci importa?», direte, «lasciaci in pace sotto l’ombrellone». Il tema, invece, riguarda tutti noi italiani. Perché noi siamo i proprietari dell’immenso patrimonio d’arte e storia. E dovremmo chiederci: è giusto ricostruire ai Fori Imperiali, cuore di Roma e sito più visitato d’Italia, sette colonne sparite da secoli e in parte rifatte con cemento armato? Tutto ruota, dicevamo, intorno alla parola anastilosi. Il vocabolario Treccani la spiega così: «ricostruzione di antichi edifici, specialmente dell’antichità classica, ottenuta mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture». Ma quanti «pezzi originali»? Quasi tutti? Almeno la metà? Un quinto? Un decimo? La discussione va avanti da decenni. Ed è, come dire, una variante del dibattito principale: se la storia ha buttato giù un tempio, un castello o una basilica con un terremoto, un bombardamento o una demolizione decisa da un esercito vincitore è giusto ricostruire tutto com’era o piuttosto è più corretto e rispettoso lasciare tutto come sta, a terra?
La prima denuncia sulle pagine del Corriere
Tutti quelli che vedono il campanile di San Marco, o meglio la ricostruzione di ciò che fu prima di schiantarsi al suolo nel 1902, si commuovono: «Che bello!» È falso? Certo non è «quello vero». Ma a distanza di un secolo la stragrande maggioranza delle persone, potete scommetterci, dice: meno male che i veneziani lo rivollero «dov’era e com’era». Giusto? Sbagliato? Se storici, archeologi, studiosi, appassionati d’arte si interrogano su questo, immaginatevi sulla integrità dei Fori Imperiali. Dove,come ha spiegato Claudio Parisi Presicce, il soprintendente capitolino, in una lettera al Corriere che per primo aveva denunciato con Paolo Fallai il rischio che i Fori fossero violati dal cemento, passò nel 2006 l’idea di una «ricomposizione di sette colonne lungo uno dei lati del quadriportico che circondava il Templum Pacis, costruito dall’imperatore Vespasiano e meglio noto come Foro della Pace». Progetto vistato via via, dato che le rovine per una demenza burocratica sono soggette per un pezzo al Comune e per un pezzo allo Stato, da «due diversi Soprintendenti di Stato, tre successivi Sovrintendenti Capitolini e due Commissioni miste Stato-Comune».
Il progetto prevede la rimozione delle «basi» antiche
È una scelta, sostiene il soprintendente ricalcando le tesi di un Comitato Tecnico Scientifico dei primi di luglio: «Si tratta di ricomporre a unità manufatti antichi giunti fino a noi rotti in pezzi». Ma quanto fedele può essere, il colonnato? «Dei fusti monolitici in granito appartenenti alle sette colonne del porticato originario è stato scoperto più di due terzi dell’intero…». Fin qui, ci siamo. Opinioni. Così come rispettabilissima è quella che «la ricomposizione delle colonne e la loro ricollocazione nella posizione originaria (anastilosi) è un obiettivo primario, direi un dovere, come quando si riattacca la testa o un braccio a una statua…». Ma qui divampa la polemica: questa «ricomposizione» può prevedere anche la rimozione delle «basi» antiche, la posa di massicci blocchi antisismici e la successiva costruzione di colonne di cemento? Perché questo dicono le foto scattate dall’architetto Sandro Maccallini, il più pronto a denunciare lo sfondamento dei limiti oltre i quali il restauro può sboccare nel falso.
L’esposto in procura dei grillini: abuso di armature e colate
In primo piano c’è «una colonna tutta finta, con una base finta, con un’anima finta e con un capitello probabilmente finto se non altro per coerenza». Avanti così, attacca, «il Foro Romano perderà la sua identità di luogo archeologico, unico al mondo, dove tutto è prezioso ed unico perché è autentico». La denuncia, raccolta nell’interrogazione di Manuela Serra e altri parlamentari grillini, è sfociata in un esposto alla Procura dove la senatrice racconta di un «utilizzo, oltre ogni ragionevolezza, di armature di ferro e di colate di cemento armato per ricostruire le parti mancanti delle colonne stesse, integrandole con rocchi originali» e denuncia la violazione di una delle regole fondamentali del restauro e cioè la «garanzia della reversibilità dell’intervento, al fine di poter intervenire in qualsiasi momento sul bene e riportarlo allo stato originario del rinvenimento, per poi di nuovo restaurarlo alla luce del progresso scientifico». Per capirci: se fra un ventennio o un secolo dovessero essere scoperte nuove e migliori tecniche di restauro, come si potranno ripristinare, ad esempio, quelle «basi» antiche demolite e rimpiazzate da nuovi plinti e nuovi «stilobati» di cemento armato?
I sostenitori del progetto: «Anastilosi come in Grecia»
«Non occorre il dottor Freud per capire che l’erezione delle colonne del Tempio della Pace», ha scritto lo storico dell’arte Tomaso Montanari, «è il risultato di un’archeologia alla disperata ricerca di una pillola blu che le conceda una nuova giovinezza, naturalmente ad alta visibilità mediatica». Dicono Parisi Presicce e gli altri sostenitori del progetto che il metodo usato «per l’anastilosi è quello messo in atto in occasioni analoghe, per esempio negli elementi sia verticali (colonne) che orizzontali (architravi) degli edifici restaurati di recente sull’acropoli di Atene». «Ma che razza di discorsi!», sbotta il presidente del Fai Andrea Carandini, «Ad Atene anche la Stoà di Attalo fu totalmente ricostruita nel ‘51 dagli americani. Ma io sono contrarissimo a scelte così. E anche gli interventi sul Partenone sono troppo invasivi. Dobbiamo copiare gli altri, se sbagliano? Poi, per carità, una colonna in cemento, da sola, può non bastare per un “crucifige”. Però…».
I critici: «Tutto quel cemento è una fantasia di dementi»
«Se l’Istituto nazionale del restauro non fosse un disastro, tutto quel cemento ai Fori non sarebbe mai passato così come non sarebbe mai passato se ci fossero ancora Giovanni Urbani o Cesare Brandi», sospira Bruno Zanardi, che ha restaurato tra l’altro la leggendaria colonna Traiana. «Rimettere insieme i pezzi del Tempio G a Selinunte, giusto o no che sia, sarebbe una “anastilosi”. Ma inventarsi le colonne del Tempio della Pace, penso a quelle foto e quel cemento, è una fantasia di dementi». Di più: «È in clamorosa contraddizione con la scelta di non ricostruire la Volta dei quattro Evangelisti di Cimabue ad Assisi. Lì sì avevamo tutto, a partire da migliaia di foto, per ricostruire ogni dettaglio. Invece…».
Gian Antonio Stella