Da ARCHEO – Parchi: la legge c’è, ma non si vede
Autore: Flavia Marimpietri
Nonostante l’approvazione di una norma ad hoc, molte aree archeologiche del nostro paese non sono valorizzate in maniera adeguata. Un paradosso, di cui ci parla Francesca Ghedini, che della questione si è occupata in prima persona
I parchi archeologici esistenti in Italia sono spesso dimenticati, abbandonati all’incuria, quando non aggrediti dalla speculazione edilizia. Vissuti, comunque, come un’entità separata dalla realtà esterna, quasi un corpo estraneo. Eppure, da un anno, esiste una legge che affronta la questione dell’integrazione del parco archeologico con il contesto moderno. ma che, per ora, è rimasta lettera morta.
Ne parliamo con Francesca Ghedini, docente di archeologia all’Università di Padova, che ha partecipato alla stesura delle legge come membro della commissione incaricata:
«La legge c’è, ma non è mai stata applicata. Si tratta delle Linee guida per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici, emanate con Decreto Ministeriale del 18 aprile 2012 e pubblicate il 2 agosto nel supplemento ordinario 165 della Gazzetta Ufficiale n 179. Una legge che, però, esiste solo sulla carta. Il suo obiettivo è fornire indicazioni che guidino la realizzazione di un parco archeologico, per garantire la tutela e valorizzazione del sito, ma anche la crescita culturale del territorio. Per questo la legge pone l’accento sul rapporto tra il bene archeologico e il contesto esterno, oltre che sulla comunicazione».
Quali problematiche avete rilevato, nel corso del vostro lavoro di documentazione sui parchi archeologici italiani? Che cosa non funziona, nel rapporto dei siti con il contesto territoriale moderno?
«I parchi archeologici sono entità complesse: per l’ampiezza, per i monumenti che vi insistono, per il conflitto costante con lo sviluppo urbanistico del territorio circostante. Ma anche per il sovrapporsi delle competenze fra Stato e Regione, oppure all’interno dello stesso Ministero dei Beni culturali. Come nel caso di Nora, in provincia di Cagliari, uno dei siti archeologici piú affascinanti e meglio conservati della Sardegna: il parco voleva realizzare due gradini di legno dove un tempo sorgeva la scalinata di un tempio romano, che si conserva solo in fondazione, per rendere al pubblico l’idea del monumento.
La Soprintendenza ai Beni archeologici ha detto di sí, quella ai Beni architettonici si è riservata di valutare: queste lungaggini burocratiche dilatando i tempi di intervento. Cosí è accaduto nel parco di Aquileia, in provincia di Udine, per il progetto della copertura di alcuni monumenti: la Soprintendenza archeologica ha dato parere positivo, quella ai Beni architettonici ha apportato una serie di correzioni, su cui non si è raggiunto alcun accordo. Per non parlare della sovrapposizione di competenze tra pubblico e privato, nel caso delle fondazioni, che a volte blocca tutto».
Cosa sarebbe necessario, invece per far «vivere» un parco archeologico nel suo territorio?
«Intanto non basta un pozzo antico in mezzo alla campagna, con un cartellone esplicativo, per fare un parco. La prima cosa da valutare è la consistenza archeologica del monumento. Quando abbiamo censito i parchi archeologici, in commissione sono arrivate oltre 2000 schede, che comprendevano siti improbabili… Poi ci sono gli studi preliminari: la realizzazione di un parco deve essere accompagnata da un’accurata indagine sulle potenzialità del territorio, sull’ampiezza del bacino di utenza dei possibili fruitori (verificando per esempio la vicinanza a centri urbani o a località turistiche), sull’accessibilità del luogo con collegamenti stradali, ferroviari o marittimi, sulla presenza di parcheggi, sulla ricettività (ovvero alberghi, ristoranti, luoghi di sosta, ecc.). Questi sono elementi imprescindibili per stimolare l’attenzione e l’interesse sia del grande pubblico che della comunità locale. Infine va impostato il progetto scientifico per la tutela e la valorizzazione del sito, che deve comprendere la ricognizione dei vincoli che insistono sull’area del parco e nelle zone limitrofe, le valutazioni per la conservazione del paesaggio e la riqualificazione delle aree compromesse o degradate, l’elaborazione di un piano di manutenzione programmata e di restauro degli edifici, con relativo monitoraggio dello stato di degrado. Ma neanche il progetto scientifico archeologico esaurisce il parco, che vuol dire anche pianificare gli aspetti paesaggistici e urbanistici, in base alla relazione con il contesto ambientale moderno».
La comunicazione, nell’ottica delle Linee Guida sui parchi archeologici, diventa un tema fondamentale per la loro integrazione con il territorio. Che cosa manca ai nostri parchi, sotto questo punto di vista?
«Manca una riflessione a monte su cosa comunicare di quel bene archeologico. Per esempio, non si possono mostrare al pubblico tutte le fasi di un monumento: bisogna scegliere cosa far vedere e cosa, invece, coprire. Il primo destinatario del sito è l’abitante del posto, che nel parco archeologico dovrebbe capire le ragioni della propria storia, e poi c’è il turista, che dovrebbe trovare un contesto ambientale accogliente che stimoli a fermarsi e a tornare. L’idea è di contrassegnare con un marchio i parchi che eseguiranno l’iter ministeriale.»
Una sorta di parchi archeologici certificati «DOC»?
«Sí, una sorta di brand che dia visibilità e magari attragga finanziamenti specifici da parte del pubblico o del privato».
vai all’articolo http://www.archeo.it/rivista/2013/Ottobre/parchi-la-legge-ce-ma-non-si-vede