Il caso di Assisi e il restauro dei nostri Beni Culturali – RSF Italia esprime la sua opinione

1 Mar 2015 | Sotto News | Scritto da | 1 Commento

di Paolo Pastorello -Presidente di RSF Italia, Roma 27/02/2015

Il caso di Assisi e il restauro dei nostri Beni Culturali: necessaria una pausa di riflessione e il rispetto delle regole

 

L’articolo a firma di Tomaso Montanari sui presunti guasti alle straordinarie opere pittoriche della Basilica inferiore di Assisi, pubblicato giovedì 19 febbraio su la Repubblica, si inserisce nell’ormai variopinto dibattito in corso intorno alla tutela e alla conservazione dei nostri monumenti eccellenti. Se la vicenda del Colosseo è un esempio di incredibile mistificazione e di rinuncia palese al rispetto di leggi esistenti e di regole elementari della corretta conservazione dei nostri fragili monumenti archeologici all’aperto, i fatti di Assisi (tutti da verificare e fatte salve le eventuali responsabilità individuali da dimostrare) ci portano a considerare nuovamente, seppure in una prospettiva opposta ma complementare, i gravi interrogativi che ci tormentano sul patrimonio storico-artistico italiano: siamo veramente in grado di garantire la buona conservazione dei nostri meravigliosi e irripetibili capolavori? E, ancora: facciamo veramente tutto il possibile per la tutela?

La vicenda di Assisi ha dell’inverosimile, se si considera che ogni lavoro di restauro di beni tutelati e di immobili sottoposti a vincolo deve essere sottoposto, per legge, all’approvazione del progetto da parte delle autorità competenti per territorio e tipologia del manufatto. La Soprintendenza competente, chiunque sia il proprietario del bene e qualunque sia il finanziatore dei lavori, assume l’Alta Sorveglianza e la responsabilità del procedimento, nominando un referente (di solito il funzionario di zona) come Direttore dei Lavori. Lo Storico dell’arte, o l’Architetto incaricato, o entrambi, seguono passo passo lo svolgimento degli interventi, chiedendo, ad ogni nuova fase lavorativa, campioni esecutivi per valutare la qualità delle metodologie previste, nel rispetto delle superfici o delle strutture da sottoporre a restauro conservativo.

Se quello che è successo alla Basilica di Assisi è vero, non è chiaro come possano essere state disattese tante buone regole. Tomaso Montanari (professore associato in Storia dell’arte moderna presso l’Università degli studi di Napoli Federico II) sostiene che dopo il restauro nella cappella di San Nicola “non siamo più di fronte alle stesse opere” e che gli affreschi della bottega di Giotto e il celebre gruppo della Madonna ai piedi della Croce “ha ora una scalatura cromatica e un chiaroscuro completamente diversi da quelli noti. Accanto, le sublimi mezze figure di Santi affrescate poco dopo (1317-19) da Simone Martini sono ancor più cambiate: appiattite, e prive di alcuni dettagli della decorazione. E la Madonna al centro del trittico nella Cappella di San Nicola ha completamente (e irreversibilmente) perso il suo manto”.

La Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria è da sempre molto attenta e ha dimostrato grande competenza anche nelle complesse emergenze causate dai terremoti, a cominciare da quello che colpì proprio la Basilica Superiore di Assisi nel 1997, che non fu né il primo né l’ultimo evento sismico in Umbria.

Dal 1997 in poi, ma già da molto prima, anche il sottoscritto era lì, nella Basilica di Assisi, al lavoro con Sergio Fusetti e con Bruno Zanardi (che oggi lancia insieme a Montanari il forse legittimo, ma tutto da dimostrare, allarme), nel cosiddetto Cantiere dell’Utopia, diretto da Giuseppe Basile con lo staff dell’Istituto Centrale del Restauro, cosi definito per l’ambiziosissimo traguardo che si prefiggeva, di salvare, tra mille difficoltà, anche i più piccoli frammenti degli affreschi di Giotto, di Cimabue e della Scuola Romana danneggiati o crollati a seguito del terremoto, ottenendo risultati straordinari, poi acclamati in tutto il mondo. Non credo, pertanto, che sia così semplice valutare frettolosamente una situazione tanto complessa e ritengo certamente scorretto cercare di dimostrarlo attraverso le foto di un quotidiano, a risoluzione infima e comunque realizzate con riprese senza nessun parametro comune di riferimento. Né mi pare opportuno che Zanardi, scagliandosi per la seconda volta in meno di un mese contro i colleghi (vedi l’intervento su Panorama del 28 gennaio), trascini in malo modo Fusetti e i suoi colleghi in una vicenda dai contorni confusi, quasi come un capro espiatorio. Quello di Bruno Zanardi è un notevole contributo alla prassi comune secondo la quale nei convegni e nelle pubblicazioni, quando si parla di restauri ben riusciti, i restauratori non sono quasi mai citati, se non di sfuggita e, se va bene, in piccole note a piè di pagina, e dove a farla da protagonisti sono sempre storici dell’arte o architetti, cioè i Direttori dei Lavori, “veri” titolari dei restauri. Qui, dove non si esita a sbattere letteralmente il mostro in prima pagina, nel momento del dubbio e del pericolo del danno “irreversibile”, il protagonista e colpevole è, guarda caso, proprio il restauratore, che, acriticamente e inspiegabilmente (ma proprio qui è il punto, perché è veramente inspiegabile, cioè insostenibile!), ha agito da solo, seguendo le sue opinabili e irrispettose metodologie e il proprio incolto gusto, che porta se stesso, la categoria e il patrimonio intero verso la rovina.

Zanardi, prima che professore universitario, è restauratore, ma sembra aver dimenticato che noi tutti restauratori, come i medici, rischiamo ogni giorno sulla nostra pelle per quello che facciamo e che lui stesso fu vittima innocente di accuse diffamatorie non molto diverse da quelle che adesso coinvolgono Sergio Fusetti. E come giustamente notava Giorgio Bonsanti, allora Direttore dell’Opificio di Pietre Dure di Firenze, proprio riferendosi all’acceso dibattito suscitato dal restauro dei Mesi del Battistero di Parma (Giornale dell’Arte di febbraio del lontano 1992), sarebbe bene che il contrasto delle opinioni contribuisse, allora come oggi ad Assisi, a “innalzare il livello della discussione e non ad abbassarlo sino a toni da ultimatum” e portasse a “divulgare quello che si è fatto e si sta facendo nel cantiere dell’edificio per discutere in sedi appropriate in modo da scoraggiare le estemporanee e apodittiche affermazioni di verità scarsamente fondate che invece hanno avuto così libero corso”.

Ma è proprio da qui che va ripreso il discorso sulle vicende di Assisi, perché, per quanto la vicenda sia stata impostata male, il punto di arrivo è corretto. Infatti, come ravvisa lo stesso autore dell’articolo sulla prima pagina di Repubblica, l’attento e stimato Tomaso Montanari, è verissimo che nessuno, neanche il restauratore, deve essere lasciato solo a decidere “se e quanto intervenire. L’appello al lavoro interdisciplinare è corretto, anzi è proprio l’essenza del restauro conservativo moderno. Quel modo di fare restauro, come notato dallo stesso Montanari, è iniziato proprio ad Assisi negli anni ‘40 del secolo scorso, grazie all’Istituto Centrale del Restauro di Roma, e si configura essenzialmente come “conservazione”.

Inoltre, gli attori di questa vicenda, Francesco Scoppola (già Direttore Regionale dei Beni Culturali dell’Umbria e ora Direttore Generale per le Belle Arti e il Paesaggio del MIBACT), Fabio De Chirico (Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria), Sergio Fusetti (Titolare di Tecnireco srl), Mauro Gambetti (padre custode del Sacro Convento di Assisi), sono tutti interpreti di chiara fama e protagonisti da decenni sul palcoscenico dei Beni Culturali e del Restauro con la “R” maiuscola. Risulta, dunque, molto difficile pensare che l’esperienza di 40 anni di impegno ai massimi livelli nel campo del restauro conservativo del collega Sergio Fusetti, o la competenza e la passione di Francesco Scoppola, di Fabio de Chirico o del suo predecessore alla Soprintendenza Vittoria Garibaldi possano essersi volatilizzati da un giorno all’altro.

Al di là delle oggettive responsabilità e degli eventuali, quanto, credo, improbabili danni occorsi agli affreschi di Simone Martini e di Pietro Lorenzetti o semplicemente alla pietra del Subasio che riveste le apparecchiature murarie, il caso di Assisi ci porta di nuovo a sottolineare quanto gli assunti teorici di Carlo Giulio Argan e di Cesare Brandi, messi in pratica dal 1942 proprio nella basilica di Assisi, che ogni restauro conservativo, tanto di opere d’arte, quanto di monumenti architettonici, deve necessariamente essere il risultato di un lavoro di gruppo preceduto dallo studio di un team di specialisti di diverse discipline e condotto collegialmente, in ogni sua fase, siano corretti e necessari: nessuna delle professionalità coinvolte a vario titolo è in grado di agire autonomamente e senza il contributo degli altri. Questo vale anche per la manutenzione, quando questa non sia soltanto una semplice spolveratura, compito comunque delicato e specialistico per quanto riguarda superfici dipinte, decorate o semplicemente storicizzate e dunque di pertinenza dei Restauratori di Beni Culturali, per il possibile impatto sulla conservazione della materia superficiale in caso di fenomeni di decoesione, sollevamento, scagliatura, distacco di parti, fratturazione, ecc. Neanche i restauratori possono, ad ogni modo, operare autonomamente, ma devono, prima di intervenire, essere informati sulla storia dell’opera, sui restauri precedenti del monumento ed essere edotti sulla natura dei materiali costitutivi, sul loro stato di conservazione e sulla natura chimica dei prodotti del deterioramento.

Oltre che nella veste di Presidente di una associazione multidisciplinare che si occupa di tutela e conservazione dei Beni Culturali (RSF – Restauratori Senza Frontiere Italia, dotata di un Comitato Scientifico di oltre 60 membri illustri), parlo anche come titolare del cantiere di restauro portato ad esempio da Montanari nell’articolo di denuncia sui restauri nella Basilica di San Francesco: nella Galleria dei Carracci, nel romano Palazzo Farnese, non un solo passo è stato fatto (né sarebbe venuto in mente a nessuno di fare) senza il consenso della Direzione dei Lavori e del Comitato Scientifico (dove è presente anche l’ISCR), il quale, peraltro, ha approvato livelli, modi e metodologie d’intervento sulla base delle proposte dei restauratori dell‘ATI Farnese, da me soltanto rappresentata. Ma nulla sarebbe stato possibile aggiungere alla storia della tecnica e alla conoscenza del modus operandi di Annibale Carracci, di Agostino e dei suoi illustri collaboratori e neanche di Giacomo da Parma, autore dei bellissimi e rinati stucchi della Galleria, senza il gravoso e attentissimo impegno dei restauratori di beni culturali coinvolti nel progetto. Il lavoro sui nostri monumenti è il risultato di molte mani e di molti cervelli e senza dubbio tale deve continuare a essere, come ci ha insegnato l’Istituto Centrale del Restauro.

Già dagli anni ‘50 del secolo scorso l’Istituto Centrale del Restauro assunse un ruolo fondamentale per indirizzare la politica della tutela in Italia ed esercitare un fondamentale ruolo di ricerca, di informazione e di controllo. Questa mentalità è patrimonio specifico del Restauratore di Beni Culturali, trasfuso come vera e propria forma mentis durante il ciclo formativo presso le Scuole di Alta Formazione, per il quale il lavoro interdisciplinare è prassi quotidiana e irrinunciabile. Trovarsi a lavorare in progetti, come purtroppo spesso accade, senza un adeguato corpus di indagini preliminari e senza referenti adeguati nei vari settori di competenza, genera un disagio difficilmente gestibile.

Il Restauratore di Beni Culturali, indispensabile, al pari delle altre professionalità, nella fase progettuale preliminare ed elaborativa, è, dal momento in cui diventa esecutivo, il fulcro attorno al quale ruota il progetto conservativo: è la figura attraverso la quale si concretizzano i risultati di tanti studi e delle molte aspettative conoscitive dei vari esperti. Il restauratore prende molto dagli altri specialisti nella fase preliminare e restituisce, grazie al suo lavoro sul campo, l’opera nella sua evidenza critica, storica, di conoscenza tecnica e conservativa, consentendo nuovi approfondimenti nei vari campi di studio. L’evidenza di questa realtà è indiscutibile, ma non sembra essere più di moda, avendo il Ministero dei Beni Culturali avviato già molti decenni orsono un processo che ha progressivamente attenuato la voce dell’Istituto Centrale del Restauro, oggi ISCR: Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro.

Quello che manca oggi nel nostro Paese non sono le competenze ma la convinzione che la conservazione delle opere d’arte e dei monumenti sia un dovere delle Stato tanto inalienabile quanto complesso e delicato, e che le regole attuative devono necessariamente essere diverse da quelle del mercato dei lavori pubblici, tutte da riscrivere pensando ai monumenti e non alle imprese e ad altri eventuali referenti commerciali. Per chiunque si occupi di medicina è evidente che per curare un centenario non basta, come per un giovane aitante con il raffreddore, una semplice aspirina, ma è necessario un consulto interdisciplinare continuo. E, certamente, non condotto dai medici che si offrono al miglior prezzo!

E’ giunto il momento di ridare il giusto peso all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, oltre che nell’ambito della ricerca e della formazione, anche in quello operativo e di controllo nei cantieri di restauro dei nostri monumenti e delle nostre opere d’arte di eccellenza, in quanto, seppur affiancata dal lavoro di altre valide istituzioni come il CNR, l’ENEA o l’Università, è ancora l’unica in Italia che possa garantire una visione organica e complessiva delle esigenze della tutela.

Dobbiamo finalmente renderci conto che il nostro Patrimonio Culturale, non è qualcosa di superfluo, un lusso costoso, ma il cuore della nostra identità, da proteggere e preservare fino a diventare, oltre che una parte importante della nostra vita intellettuale, anche il motore di un settore fondamentale della nostra economia, senza trasformarsi, come sta succedendo e come ammonisce lo stesso Montanari, un’industria dell’intrattenimento ‘culturale’. Nella politica della tutela e della conservazione dei Beni Culturali del nostro Paese è forse necessaria una più chiara e convinta adesione al principio della multidisciplinarità e l’onestà di applicarla senza deroghe e senza concessioni a interessi locali, personali, occasionali o finanziari. Solo così si potranno evitare altri guasti e catastrofi annunciate per la conservazione del nostro patrimonio storico-artistico, irripetibile e tra i più rilevanti del pianeta.

Tornando al caso di Assisi, come potremmo non condividere l’appello di Vittorio Sgarbi (Il Giornale, 22 febbraio 2015) al rispetto delle semplici regole dell’onestà intellettuale contro le possibili macchinazioni del “politicamente corretto“? E, concludendo, come dissociarci da quanto già molti anni fa auspicava Giuliano Briganti nella polemica sul restauro del Battistero di Parma (Perché sparate sul Battistero?, la Repubblica, 9 dicembre 1992)? “Spero”, diceva, “che in un convegno ristretto a storici dell’arte e a restauratori”, oltre, aggiungerei, a esperti della diagnostica della conservazione, “le parti avverse possano portare le loro ragioni e che questo non si risolva in una sfida infernale, in un mezzogiorno di fuoco fra accusati e accusatori ma in un pacato scambio di opinioni, in un civile dibattito dal quale emergano con maggior chiarezza i principi cui si deve attenere il restauro, elemento essenziale del Buon Governo dell’arte”.

Paolo Pastorello

 

1 Commento

  1. Reply

    Rosalia Varoli-Piazza

    9 anni ago

    Complimenti Paolo per il bellissimo articolo, che leggo solo oggi, ma del quale mi era giunta notizia.
    C’è molto bisogno di tutto ciò che scrivi ed anche di quella interdisciplinarità che è il fondamento di scambio di notizie e nozioni scientifiche, è discussione -anche animata- mirata alla miglior forma possibile di conservazione dello straordinario patrimonio culturale che guardiamo ma forse non siamo sempre in grado di vedere appieno.

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