Da Gariwo “La distruzione del patrimonio archeologico è un crimine di guerra”

7 Ott 2015 | Sotto News | Scritto da | 0 commenti

Articolo di Gabriella Brusa – Zappellini, Associazione Lombarda Archeologica

Mosul, Nimrud, Ninive, Hatra, Palmira. A scadenze ravvicinate stiamo assistendo alla distruzione sistematica del patrimonio archeologico del Vicino Oriente antico, attraverso una strategia programmata che utilizza le riprese filmate come cassa di risonanza delle devastazioni. Con le stesse modalità l’Isis/Daesh diffonde le immagini in presa diretta di decapitazioni e di corpi straziati. Paradossalmente, il loro rimbalzo nei circuiti mediatici internazionali pare assecondare questa macabra forma di auto-pubblicizzazione. Un’esibizione dell’orrore che sfida la civiltà e i suoi più alti valori. Ma è necessario che il mondo sappia.

Si potrebbe obiettare che la perdita di vite umane non sia paragonabile a quella dei monumenti. In realtà, sono due esiti dello stesso odio e disprezzo del vivere civile, gestiti con la medesima determinazione e ferocia. Del resto, nel febbraio del 2001, la distruzione da parte dei talebani dei due colossali Buddha di Bamiyan era l’inquietante premonizione dell’attacco di settembre alle torri gemelle del World Trade Center di New York. Già allora in Afghanistan avveniva contemporaneamente anche una tragedia “senza telecamere”, un immane disastro di vite umane e monumenti. Oggi, le migliaia di profughi siriani in fuga verso l’Europa – che i Paesi civili hanno il dovere di accogliere – rendono più evidente la catastrofe umanitaria. Ma anche per i beni archeologici, le immagini satellitari – che certo non si prestano alla spettacolarizzazione mediatica – evidenziano un bilancio pesante di devastazioni e un numero impressionante di scavi clandestini che sono, di fatto, altrettanto distruttivi. Lo smercio sul mercato del collezionismo privato di quanto proviene da questi saccheggi costituisce per l’Isis/Daesh una fonte di finanziamento enorme. Ora, dinanzi a questi crimini di guerra, qual è il contributo specifico che il mondo dell’archeologia può dare?

Ritengo che il sequestro degli oggetti trafugati in vista della loro restituzione e il restauro dei beni siano oggi due esigenze prioritarie. Il traffico illegale dei reperti – come ha recentemente sottolineato Bonnie Magness-Gardiner (Art Theft Program Manager – FBI) – sta invadendo i mercati antiquari americani. Ma il fenomeno investe in larga misura anche Europa e Giappone. La proposta americana di perseguire come “finanziatori del terrorismo” i venditori e gli acquirenti di questi beni potrebbe essere un buon deterrente. Lo dovrebbero adottare tutti gli Stati, compresa l’Italia, anche se qui il fenomeno assume proporzioni minori. La recente iniziativa promossa dall’Institute for Digital Archaeology (IDA) di Oxford di inviare droni dotati di telecamere 3D per fotografare i siti a rischio va in questa stessa direzione. Non è soltanto un modo per conservare la memoria del patrimonio, ma potrebbe anche ben documentare la dispersione di un “bottino recente” fatto passare per “vecchie acquisizioni” anteriori al 1930. Dietro questo traffico ci sono mercanti e collezionisti senza scrupoli, ma anche – e mi dispiace pensarlo – archeologi, coinvolti o disattenti, che si prestano alle expertise e che dovrebbero essere allontanati senza appello dalla collettività della ricerca.

Un altro punto fondamentale è il restauro. Il Centre archéologique européen del Museo di Bibracte sta procedendo alla raccolta di materiale da inviare ai colleghi siriani: attrezzature per l’imballaggio, la conservazione, il consolidamento, il recupero e strumenti per la documentazione delle collezioni. Dunque: fare in ogni caso il possibile, anche quando la minaccia incombe, per tener viva la speranza ostinata che il male non possa avere la meglio. L’apertura anticipata nel marzo di quest’anno – subito dopo le devastazioni di Mosul – del Museo di Baghdad, saccheggiato nel 2003, è stata la risposta coraggiosa a un vandalismo teso ad annientare la consapevolezza del popolo iracheno di appartenere a una grande cultura millenaria. Nel nostro Paese i centri di restauro sono un punto di eccellenza a livello internazionale. Il Centro per il Restauro (ICR – ora ISCR) di Roma ha contribuito alla rinascita del Museo Nazionale di Kabul dopo i saccheggi avvenuti fra il 1992 e il 1998. Nel febbraio del 2001 i capi talebani ordinarono la demolizione di tutto ciò che del museo ancora restava. Centinaia di statue in scisto grigio e stucco vennero fatte a pezzi. A partire dalle migliaia di frammenti rimasti al suolo, molte statue – fra le più belle testimonianze della Cultura del Gandhāra – sono state ricomposte. Un lavoro incredibile, che ha impegnato esperti dell’ICR e della Délegation Archéologique Française en Afghanistan e utilizzato la documentazione messa a disposizione dall’archivio fotografico del Museo Guimet di Parigi. Il restauro dei questi beni è certamente anche un modo per contribuire alla rinascita e allo sviluppo economico, “in una prospettiva di pace”, di realtà straziate dalla guerra.

Il patrimonio storico non rappresenta però solo un’eredità identitaria e una risorsa economica per i Paesi che lo detengono. È anche, e soprattutto, una ricchezza collettiva. Parliamo di “patrimonio universale dell’umanità” – e la lista UNESCO ne certifica la presenza – ma questo concetto rischia di rimanere astratto: un ideale regolativo più che un’effettiva realtà, sentita e condivisa. È probabile che il saccheggio di un sito archeologico o di un museo in Europa colpirebbe maggiormente la nostra opinione pubblica di quanto non accada per devastazioni in Iraq, in Siria, in Libia, nello Yemen o in Afghanistan. È comprensibile. In Italia i programmi di Storia dell’arte dei Licei, hanno, per forza di cose, un’ottica eurocentrica. I nostri studenti per lo più ignorano la straordinaria bellezza dell’arte asiatica, ma soprattutto non conoscono i profondi legami che uniscono queste testimonianze alla nostra tradizione. La storia antica parla di scontri e conflitti. Sui banchi di scuola abbiamo imparato ad apprezzare la vittoria della democrazia greca sul dispotismo persiano, ma ignoriamo che sul piano artistico le coseandarono in un modo molto diverso. Le vestigia che lo scavo archeologico restituisce parlano il linguaggio di un generalizzato sincretismo, di stretti raccordi e di costanti apporti reciproci fra culture più complementari che antitetiche. Quanto il mondo greco ha influenzato l’arte achemenide, parthica, o i capolavori dell’impero Kushana? Quanto di romano-imperiale c’è nell’arte sasanide? Quanto Oriente c’è nel nostro alto-medioevo o nei capitelli delle chiese romaniche?

Fra 40000 e 10000 anni fa, le pitture parietali delle grotte e i reperti d’arte mobiliare del Paleolitico superiore evidenziano in Eurasia la presenza una grande cultura – che io preferisco chiamare “civiltà” – unitaria. Con il Neolitico le cose cambiano. Iniziano i conflitti fra nomadi e sedentari e si differenziano i dialetti artistici regionali. Ma hanno anche inizio – o meglio, proseguono in modo diverso – i grandi scambi a lunghissimo raggio. Viaggiano i materiali, i manufatti, le tecniche di lavorazione, i maestri di bottega. Tutta l’Eurasia protostorica e antica è densa di punti di incontro, di scambio e raccordo. Pensiamo solo alla Via della seta e prima ancora, nell’Età del bronzo, alla Via del lapislazzuli. Un grande ponte carovaniero gettato dalla Valle dell’Indo al Mediterraneo. I patrimoni archeologici dell’Oriente e dell’Occidente sono, da un certo punto di vista, la trama e l’ordito di una memoria comune. Se l’una o l’altro si degrada o viene distrutto, tutto il tessuto della nostra storia rischia inevitabilmente di sfaldarsi. Alla diffusione di questa consapevolezza l’archeologo può dare un contributo notevole, con diversi mezzi. Forse anche attraverso un uso intelligente di quella fitta rete relazionale rappresentata oggi dai social network.

 

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